lo Spungone

Lo Spungone, dal dialettale spugnò o spungò per il suo aspetto “spugnoso”, è un particolare tipo di roccia arenaria calcarea che forma le nostre colline e che tanto influenza la geologia del territorio e la produzione agricola locale, in particolare quella vitivinicola e olearia.

Costituito da un grossolano impasto di gusci di conchiglie marine tenute assieme da cemento calcareo, la genesi delle Spungone deriva da depositi marini (di mare relativamente basso) insediatisi durante il Pliocene Medio, circa 3 milioni di anni fa, su zone rialzate che costituivano la Romagna di allora.

Attualmente lo Spungone costituisce una sorta di dorsale rocciosa che costituisce le nostre colline. Possiamo osservarne gli affioramenti più evidenti nei punti in cui questa catena viene tagliata dal corso dei fiumi, ed in special modo dal Montone nei pressi di Castrocaro (la stessa fortezza è costruita sullo Spungone), nella sommità del colle di Bertinoro (sotto la Rocca), sul Rabbi all'altezza di Fiumana, e sul Bidente-Ronco nei pressi di Meldola.

Lo Spungone Materia prima

Particolarità, per la facile reperibilità e malleabilità di questa roccia spugnosa, lo Spungone per secoli è stato utilizzato sia come pietra da costruzioni per ponti e case, sia per produrre macine, sia come materia prima per la produzione, previa cottura in forni speciali.

Lo Spungone Cenni sulla geologia dello “spungone” romagnolo.

A cura di Marco Gualdrini

Il territorio della Romagna centrale è contraddistinto dalla presenza, in affioramenti sparsi in una fascia di una trentina di km, di un particolare tipo di roccia di colore giallastro, dalla trama grossolana, dura ma anche facilmente sgretolabile, perché bucherellata e ricca di “cariature” e fori, caratterizzato dalla presenza di fossili facilmente identificabili ad occhio nudo, in particolare frammenti di conchiglie. Il suo aspetto caratteristico può ricordare quello di una spugna, e questo probabilmente ha generato il nome locale di “ spungone”. La sua relativa morbidezza la rende facilmente lavorabile e storicamente è stata utilizzata localmente come pietra da costruzione: non è raro infatti trovare elementi in spungone nei muri delle case rurali ed anche dei palazzi dei centri abitati limitrofi. I suoi affioramenti punteggiano in maniera discontinua una fascia nelle prime colline che va dal faentino al cesenate, interessando in particolare il territorio dei comuni di Castrocaro, Meldola, Predappio e Bertinoro: in queste zone la roccia va a creare dei rilievi più o meno marcati e dei colli, sui quali spesso si sono insediati elementi antropici, come ad esempio la Rocca di Castrocaro, quella di Meldola e l’abitato stesso di Bertinoro. È una roccia particolare perché, come si diceva, ha una trama grossolana costituita prevalentemente da frammenti di fossili: gusci di conchiglie ed anche tritume di origine organogena; la sua natura chimica è essenzialmente calcarea, carbonatica, perché il carbonato di calcio è il componente principale dei fossili che la compongono, e questo fa sì che dove essa affiora il terreno assume caratteristiche particolari, risultando cioè più fertile ed adatto all’insediamento di vegetazione arbustiva ed arborea, ed anche adatto alla coltivazione in particolare di alcuni vitigni. Qual è l’origine di questa roccia e perché la troviamo proprio in quest’area? Per scoprirlo, dobbiamo comprendere la geologia dell’Appennino Romagnolo.

Le rocce sedimentarie dell’Appennino Romagnolo.

Mentre a nord della via Emilia il territorio romagnolo è essenzialmente pianeggiante, l’entroterra, a sud della via Emilia, è caratterizzato da un graduale ma piuttosto continuo sviluppo di rilievi collinari, prima molto dolci ed arrotondati e poi, man mano che si procede in direzione sud verso il crinale appenninico, più marcati, con forme più nette e rilevate. Si parte così dalle bassissime quote delle aree di pianura (poche decine di metri sopra il livello del mare) fino ad arrivare agli oltre mille metri dei rilievi delle Foreste Casentinesi.
Le rocce che costituiscono questi rilievi montuosi sono rocce sedimentarie: rocce, cioè, costituite da sedimenti, ovvero frammenti, granuli – di varie dimensioni – derivati da altre rocce più antiche, erose dagli agenti atmosferici o dall’azione delle acque meteoriche e marine, che si sono accumulati nei millenni e, nel tempo, si sono “cementati” (un processo definito diagenesi) fino a formare le formazioni rocciose che oggi possiamo osservare.

Per i geologi, le rocce sedimentarie prendono vari nomi, in base alla dimensione dei granuli che le costituiscono, da grossolani a fini, osservabili ad occhio nudo o con la lente d’ingrandimento o il microscopio. Si hanno così i conglomerati, costituiti da ciottoli, ghiaia e pietrisco con granuli da decine di centimetri fino a 2 mm; le arenarie, costituite prevalentemente da sabbie cementate, con granuli da 2 mm (sabbia grossolana) a 1/16 di millimetro (sabbie fini), le siltiti o limi, con granuli di dimensione molto piccola, da 1/16 di mm fino a 1/256 di mm, e le argille, formate da accumuli di granuli microscopici, minori di 1/256 di mm. Tutte queste rocce si formano quindi per la deposizione e l’accumulo di questi sedimenti: e questo processo di formazione avviene nella stragrande maggioranza dei casi per mezzo dell’acqua, che prima erode le rocce più antiche, le frantuma, poi le trasporta ed infine le fa depositare. È questo un fenomeno che è avvenuto sulla superficie della Terra per milioni e milioni di anni, e che continua tutt’oggi, incessantemente, dai corsi d’acqua minori, fino ai fiumi e al mare. Il fatto che si depositino arenarie, conglomerati o argille dipende essenzialmente dall’ energia che l’acqua aveva quando ha lasciato depositare quei particolari sedimenti. È facilmente comprensibile come i granuli più grossi e pesanti, i ciottoli, possono essere trasportati solo dove l’acqua ha una grande energia, quindi in genere lungo i corsi dei fiumi più impetuosi, ai piedi delle montagne, oppure negli ambienti di costa o scogliera marina, dove le onde si infrangono con grande forza. I sedimenti più piccoli e leggeri vengono trasportati più lontano e si depositano dove l’acqua ha meno forza: le sabbie, per esempio, si depositano sui margini dei fiumi di media energia, sulle spiagge poco ripide o nei fondali marini poco profondi, dove è ancora presente una certa forza dell’acqua, data dalla corrente o dalle onde, ma non così energica da mantenere questi granelli in sospensione. I granuli di argilla, i più piccoli e leggeri, sono gli ultimi a depositarsi, perché basta anche un movimento molto debole e leggero dell’acqua per riportarli di nuovo in sospensione: le argille quindi si depositano in fondali molto calmi, lontani dalle correnti e dai movimenti ondosi, e quindi, in genere, in fondali di mari profondi.

Se osserviamo le rocce che costituiscono i rilievi collinari della Romagna centrale, scopriremo che nella fascia più prossima alla pianura, esse sono costituite in prevalenza da argille, e le colline hanno forme dolci e morbide, date dalla plasticità e facile erodibilità di questa roccia, che come è ben noto può facilmente imbibirsi d’acqua e diventare plastica e tenera. In questa prima fascia, però, per la stessa facilità a perdere durezza, ad essere erosa e a franare dell’argilla, talvolta i dolci rilievi sono interrotti dal caratteristico fenomeno dei “calanchi”: zone brulle, prive di vegetazione, caratterizzate da creste aguzze poco stabili, tendenzialmente franose, intervallate da un reticolo di canaloni entro i quali l’argilla si sgretola.

Spostandoci in direzione sud, verso il crinale appenninico, troviamo invece delle rocce tendenzialmente più dure, con rilievi più massicci e ripidi, costituite prevalentemente da una sequenza alternata di stratificazioni di arenarie e marne (un tipo di argilla con una forte componente calcarea), facilmente identificabili nelle pareti rocciose erose in prossimità dei fiumi. Queste rocce stratificate sono strutturate in “pacchi” di spessore notevole, che emergono per svariate centinaia di metri ma proseguono nel sottosuolo per uno spessore complessivo che in alcuni punti raggiunge i due o tre km. Dato che il fenomeno di deposizione e consolidamento dei sedimenti è un fenomeno che avviene molto lentamente, possiamo comprendere come tutto questo spesso di rocce si sia depositato in un periodo di tempo molto lungo, di molti milioni di anni.

Ciò significa che, per un periodo di tempo molto lungo, in quello che adesso è il territorio della Romagna centrale era presente un mare, di profondità più o meno elevata a seconda delle fasi. Questo non vuol dire che il livello del mare fosse più alto rispetto alla sua quota attuale, ma piuttosto che i terreni che allora costituivano i fondali marini si trovavano più in basso rispetto ad oggi, e ad un certo punto è accaduto qualcosa che ha portato questi terreni a sollevarsi fino ad emergere dal mare e diventare terra ferma, ambiente continentale.

Genesi tettonica dell’Appennino.

Il fenomeno che ha portato i fondali a sollevarsi, certamente non in maniera sempre uguale, ma con periodi di avanzamento e altri di indietreggiamento, a seconda anche delle zone, è un altro fenomeno fondamentale che sta alla base della struttura geologica del territorio romagnolo, e che continua tuttora: l’orogenesi degli Appennini, cioè la formazione della catena appenninica per effetto della spinta tettonica delle placche in collisione.

È noto che l’Italia deve la sua struttura geologica all’incontro, o meglio allo scontro, di due placche tettoniche, la placca africana (o più precisamente una sua propaggine, la placca Adria) e il continente europeo. La placca Adria ha avuto in una prima lunga fase (da 60 a 30 milioni di anni fa) un movimento prevalentemente da sud verso nord, generando nella collisione con la placca europea la catena delle Alpi; in una seconda e successiva fase, a partire da circa 20 milioni di anni fa, il movimento delle placche, bloccato dalla presenza a nord delle Alpi, è divenuto più complesso, con una componente prevalente da sud-ovest verso nord-est: la catena appenninica ha quindi iniziato a formarsi in senso longitudinale, con asse da nord-ovest a sud-est.

L’Appennino andava così a formarsi - e ad accrescersi - per la compressione delle placche, procedendo dalla parte occidentale dell’Italia in formazione, verso la parte orientale, più o meno dove sono ora la Romagna e le Marche, dove era presente un antico mare “paleo-adriatico”, più o meno profondo a seconda dei punti e dei momenti, entro il quale si depositavano (Miocene, da 20 a 5 Milioni di anni fa)flussi torbidi di sabbie e argille, dati da grandi frane sottomarine al margine orientale della catena appenninica in formazione, seguiti poi (Pliocene, da 5 a 2 Milioni di anni fa) da fasi più tranquille di mare profondo nel quale si depositava argilla. Il movimento progrediva da ovest verso est, e tale movimento perdura ancora oggi, in direzione del Mare Adriatico.

Le spinte tettoniche proseguirono generando, in tempi molto lenti e lunghi, delle deformazioni e delle pieghe nelle rocce in via di consolidamento, ma anche delle fratture, delle faglie, linee di discontinuità tra lembi di roccia che si spaccavano, con movimenti relativi, sia in senso verticale sia in senso orizzontale. Le faglie e lineazioni tettoniche hanno determinato l’andamento delle pieghe e delle successive strutture che caratterizzeranno poi la catena appenninica, anche a grande scala.

A scala più piccola, in particolare nella zona della Romagna centrale, queste discontinuità hanno avuto effetti locali,generando zone differenziate, con rilievi sottomarini che portarono alcune aree a trovarsi, per alcuni periodi, sollevate rispetto alle zone circostanti. In queste aree, attive per intervalli di tempo piuttosto limitati - su scala geologica - si depositavano rocce differenti dalle argille circostanti, perché differente era l’ambiente di formazione sedimentaria.

Sui rilievi strutturali, frammentati e discontinui, il mare poco profondo permetteva la deposizione di sedimenti più grossolani ed anche di scogliere ricche di organismi con guscio calcareo, quali molluschi, briozoi, alghe rodoficee e foraminiferi; nelle zone limitrofe a queste scogliere, per effetto delle fratturazioni e segmentazioni tettoniche, si creavano dei canali sottomarini nei quali andavano progressivamente ad accumularsi i sedimenti derivanti dallo smantellamento delle scogliere, creando dei depositi grossolani di arenaria di origine organogena, costituita dai frammenti dei gusci degli organismi presenti nelle limitrofe aree di mare basso. Successivi movimenti tettonici verticali (caratterizzati da “slump”, cioè frane nei sedimenti in fase di accumulo e consolidamento) producevano poi l’abbassamento di questi rilievi, con varie fasi di assestamento che si concludevano riportando l’ambiente di deposizione sedimentaria a quello di mare profondo. I depositi argillosi andavano quindi a sovrapporsi a quelli calcarenitici, sfumando l’uno nell’altro o intersecandosi ai precedenti.

L’ultima fase dell’orogenesi vide un nuovo e generale approfondimento del mare con la deposizione degli ultimi strati di argilla, a cui seguì poi la progressione verso est dell’innalzamento della catena appenninica, con la definitiva emersione dei terreni della Romagna (nel Pleistocene, da 1,8 Milioni di anni fa) e l’inizio della formazione della pianura padana (di origine alluvionale, ovvero fluviale).

Lo “spungone” del Pliocene romagnolo.

Nell’area tra il faentino e il cesenate, all’interno della fascia delle Argille, nelle rocce corrispondenti al periodo del Pliocene Inferiore – Medio (da 4.5 a 3.5 Milioni di anni fa), identifichiamo dunque una sorta di “catena” o “vena”, costituita da affioramenti e lembi decisamente discontinui ma in grado di formare rilievi non trascurabili, come il Monte Torre, il Castellaccio, il Colle delle Caminate, il Monte Palareto, Monte Casale, Monte Tondo di Bertinoro e il Monte dei Cappuccini.

Si presentano come affioramenti di una roccia stratificata di colore dal grigio al giallastro, molto ricca di fossili, interi o più spesso in frammenti, in particolare di conchiglie, che le danno una caratteristica struttura spesso poco compatta e ricca piuttosto di cavità, cariature, alveoli, fori (da cui probabilmente il nome dialettale“spungò”, per l’aspetto spugnoso).

È lo “spungone” romagnolo, costituito da rocce comunque più dure e massicce rispetto alle circostanti argille, e che per questo emergono rispetto alle aree limitrofe. È costituito infatti prevalentemente da una “calcarenite organogena”, ovvero una arenaria a forte componente calcarea, data dalla cementazione di frammenti di parti dure degli organismi marini che vivevano negli ambienti di scogliera sopra descritti, in corrispondenza dei rilievi strutturali formatisi in fasce discontinue definite da discontinuità tettoniche nel mare paleoadriatico di cui si è parlato precedentemente.

Proprio il suo essere discontinuo e frazionato, con limiti talvolta labili e mascherati dalla vegetazione presente (che qui si instaura per il substrato più fertile rispetto a quello argilloso circostante), fa si che lo “spungone” sia identificato a livello storico-culturale più come “roccia” o pietra da costruzione che non come formazione geologica o “catena” (nelle cartografie non è mai indicato come elemento geografico, a differenza ad esempio della limitrofa Vena del Gesso del brisighellese, mentre nelle mappe sono ben evidenziati i vari colli che di “spungone” sono fatti).

Dal punto di vista più strettamente geologico, come abbiamo già visto, la natura frammentaria dello “spungone” racconta una origine piuttosto complessa di questa formazione, testimoniata anche dalla diversità di caratteristiche (facies) con cui lo spungone si presenta, a seconda delle zone.

CREMONINI et alii (1982) identifica tre associazioni litologiche così differenziate:

  • associazione A (calcari organogeni biocostruiti, ricchi di foraminiferi del genere Amphistegina, lamellibranchi, alghe rodoficee, colonie di briozoi in posizione di crescita fisiologica, a formare “scogliere” di mare basso e/o ambiente littorale);
  • associazione B (calcareniti organogene composte da detriti derivanti dall’associazione A, risedimentate entro canali di mare basso);
  • associazione C (olistoliti, blocchi appartenenti alle precedenti litofacies disarticolati ed inclusi in sedimenti di età successiva).

In questa suddivisione si identifica una dipendenza dei depositi di associazione B da quelli di associazione A, dove i secondi vengono identificati come roccia fonte dei primi.

Nel territorio di distribuzione degli affioramenti di spungone le facies sono presenti in percentuali differenti: nell’area più occidentale, da Castrocaro al faentino, la facies più diffusa è quella B, cioè la calcarenite organogena risedimentata, mentre nella zona di Bertinoro è presente in prevalenza la facies A,costituita da un vero e proprio calcare organogeno biocostruito, quindi una vera e propria “scogliera fossile in posto” costituita da briozoi, alghe rodoficee (un tipo di e alghe che producono concrezioni calcaree) molluschi lamellibranchi (come vari tipi di pettini - tra cui le cappesante - ed ostriche). Lafacies C dove i blocchi di spungone presentano una natura molto più caotica e rimaneggiata, e una dislocazione anche all’interno di sedimenti più recenti, conferma la genesi complessa di questi depositi, influenzati nella loro formazione da fenomeni tettonici sin-sedimentari (cioè contemporanei alla sedimentazione), quali frane sottomarine (slump) ed effetti di faglie.

La scarsa estensione laterale di questi depositi deriva dalla loro forma geometrica: anziché essere grandi depositi di forma tabulare, estesi lateralmente (come le arenarie più antiche della Formazione Marnoso-Arenacea o i grandi depositi delle Argille Azzurre), questi depositi andavano formandosi su aree circoscritte con fondale rialzato sul quale si formavano scogliere di rodoficee e lamellibranchi (un’immagine che riporta alla mente gli odierni ambienti sub-tropicali) o in vari canaloni sottomarini di limitata estensione e profondità, nei quali le sabbie provenienti dalle zone di mare basso franavano spesso, guidate da piccoli terremoti o dai movimenti delle faglie lì presenti. I depositi assumono quindi una forma “lenticolare”, che lateralmente sfuma nei depositi argillosi circostanti.

Sicuramente l’ambiente di formazione dello spungone era piuttosto “disturbato” e “dinamico”, ben diverso dal tranquillo mare profondo nel quale sedimentavano le argille!

I fossili dello spungone.

Molti studi paleontologici sono stati eseguiti sulle rocce dello spungone.I fossili più comuni e appariscenti sono sicuramente i resti dei molluschi lamellibranchi, in particolare pettinidi (cappasanta) ed ostreidi (affini alla attuale ostrica). In realtà le specie viventi in questi ambienti dovevano essere molte di più di quelle effettivamente ritrovate, ma i processi di fossilizzazione hanno previlegiato gli organismi con gusci più duri e con forme più adatte alla conservazione, mentre gli scheletri di molti altri organismi non sono stati conservati se non come impronte “cave”. Del resto l’aspetto bucherellato della roccia, oltre che derivante dagli effetti dell’erosione differenziata degli agenti atmosferici quali vento ed acqua meteorica, può essere ascritto anche alla dissoluzione selettiva di scheletri di alcuni organismi, che hanno lasciato al posto del loro organismo una serie di fori e cavità.

Altri componenti importanti dello spungone sono le alghe rodoficee, un tipo di alghe rosse capaci di produrre concrezioni di carbonato di calcio che costituiscono una sorta di struttura ossea per l’accrescimento delle stesse alghe. Similmente a queste, si ritrovano colonie di briozoi, organismi coloniali simili per aspetto esterno ai coralli (ma più complessi a livello organico): anch’esse secernono un esile scheletro calcareo, che produce incrostazioni sulle superfici delle rocce o delle conchiglie di altri organismi, sulle quali i briozoi si potevano ancorare per poter proliferare.

Vanno inoltre citati i foraminiferi del genere Amphistegina, organismi unicellulari tuttora presenti nei mari del mondo, dotati di guscio calcareo a forma lenticolare, del diametro di circa 2 mm (più o meno quello di un grosso granulo di sabbia): lo spungone ne è ricchissimo.

Tutti gli organismi fossili citati, in parte estinti, sono caratterizzati dalla predilezione per un ambiente di mare caldo, il che ci fa pensare che l’ambiente di formazione dello spungone fosse di tipo sub-tropicale, assimilabile ai Caraibi o simile.

I fossili e le considerazioni sedimentologiche sopra descritte ci permettono quindi di delineare per lo spungone una genesi piuttosto caratterizzata ed articolata. Se in generale in tutto il margine pedeappenninico romagnolo si rileva una prevalenza di depositi rocciosi di mare calmo e profondo, caratterizzati dalla formazione di argille, l’ambiente di formazione dello “spungone”, caratteristico di alcuni intervalli del Pliocene inferiore al limite con il Pliocene medio, tra 5 e 3.5 milioni di anni fa, ci descrive una fascia localizzata caratterizzata da fondali marini poco profondi, con rilievi (alti strutturali) di origine tettonica distinti rispetto ai vasti fondali profondi limitrofi, caratterizzati da acque calde ed elevata energia.

Questa condizione ha permesso, in questa particolare area, l’instaurarsi di scogliere organogene costituite da diverse tipologie di organismi, e la contemporanea e conseguente formazione, in canaloni adiacenti a questi rilievi del fondale marino, di depositi rimaneggiati di sabbie, e quindi arenarie, di origine organogena costiera, che si sono poi intercalate alle argille di mare profondo limitrofe.

Questa particolare condizione paleoambientale ha permesso la formazione di queste rocce così particolari e caratterizzate, così ricche in carbonato di calcio e quindi anche così adatte, una volta emerse, all’instaurarsi di forme di vegetazione più rigogliosa rispetto all’ambiente circostante – (inclusi i vitigni dell’Albana DOC di Bertinoro).